Ieri il tribunale di Vercelli ha rinviato a giudizio il magnate svizzero Stephan Schmideheiny per omicidio volontario plurimo di 392 abitanti di Casale Monferrato, di cui 62 ex lavoratori dell’azienda. I familiari delle vittime di amianto avranno ancora qualche speranza di vedere condannato l’imprenditore, la cui colpa più grave è a mio avviso, decidere già nel 1976 di non informare i dipendenti delle sue aziende in tutto il Mondo dei gravissimi danni alla salute – già noti allora – che l’esposizione alla fibra avrebbe loro provocato, e anzi nascondere i dati stessi e ordinare ai suoi manager di fare in modo che non arrivassero agli operai e ai cittadini, addirittura distribuendo un prontuario con risposte preconfezionate ai fini di negare l’alto potenziale cancerogeno dell’asbesto.
Su questa decisione va fatta una valutazione, però.
Schmideheiny ha occultato i dati in nome del profitto e non ha mai mostrato pentimento, nemmeno preoccupandosi di procedere alla bonifica come risarcimento morale per il disastro ambientale e per le centinaia di Vittime.
Ma processare l’uomo e farlo marcire in galera non decontaminerà il territorio piemontese né compenserà gli affanni emotivi ed economici dei familiari.
Un disegno di Giustizia più alto dovrebbe valutare la riparazione di questi danni da parte dello stesso magnate, prevedendo un intervento in questi due ambiti.