di Barbara Benedettelli
4 giugno 2013
C’è chi dice ventotto, chi trentacinque, chi cinquantanove. Il numero delle donne uccise dai compagni o ex compagni nel 2013 è incerto. In Italia non abbiamo ancora un centro unico di raccolta dei dati come prevede la Convenzione di Istanbul. La violenza sulle donne è una tragica realtà che dura da secoli e che va di pari passo con la discriminazione, il pregiudizio, gli stereotipi. E un maschilismo ancora vivace che ritiene discriminante al contrario persino il termine femminicidio. Un termine nato con l’onere di racchiudere in una parola sola un insieme di circostanze, che richiedono una sintesi capace di identificare immediatamente un grave problema anche culturale, non risolvibile certo solo a livello penale. Non sono d’accordo nel creare un reato specifico per l’omicidio di una donna “in quanto donna”, né la Convenzione di Istanbul lo prevede. Quello che prevede però, in campo penale, è la punibilità e la perseguibilità del colpevole già prima di arrivare all’atto estremo. E la certezza che un delitto non resti impunito a causa di una mentalità tollerante che lo ritiene meno grave di un altro: sotto sotto la donna che si emancipa disturba, quella stuprata se l’è cercata e quella uccisa dal marito o dall’ex alla fine “ci sarà stato un perché”. I colpevoli diventano vittime e le Vittime, quelle vere (e quindi con la V maiuscola), subiscono la seconda violenza da parte della società e di una “giustizia” che fa sconti su sconti neanche fossimo al mercato.
“Il maschio che usa violenza sulla femmina non commette un reato più grave di una femmina che usa violenza sul maschio.” Questa è una frase ricorrente. E cieca. La questione non è se è più o meno grave. L’omicidio è grave in sé e deve essere sempre condannato con il massimo della pena, senza sconti, né attenuanti. La differenza sta nel disvalore sociale di ciò che lo precede spesso di anni e che può essere superato se riconosciuto. Sta nei dati di realtà. Che non possono essere sottovalutati. Quanti maschi vengono uccisi dalle loro donne? Quanti subiscono, prima, anni di violenze fisiche, psicologiche, economiche? Quanti sono dominati dalle loro compagne fino a morirne? E quanti uomini vengono stuprati da una donna o da un branco? Suvvia apriamo gli occhi sul reale.
La Convenzione di Istanbul non viola il principio di eguaglianza e credo siano superficiali, riduttivi e maschilisti coloro che trattano un fenomeno difficile da sradicare come una rivendicazione femminista fine a se stessa. La violenza sul genere femminile di cui parla la Convenzione ha una sua specificità, che va riconosciuta, contestualizzata e isolata per essere contrastata. A cosa e a chi serve rivoltare la frittata adducendo che la Convenzione – che contrasta la discriminazione nei confronti delle donne – in realtà fa discriminazione al contrario?
“La Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 Cost.)”. A meno che non si riconosca nella donna una persona umana degna di tutela e di eguaglianza, voler negare l’evidenza della presenza di ostacoli culturali, sociali ed economici che, di fatto, limitano la sua libertà di sviluppare la propria personalità, non fa altro che alimentare la discriminazione (o diseguaglianza) che resiste ai secoli.
Prendiamo per esempio “gli ostacoli di ordine economico”. Anche le “femmine” hanno diritto di avere un trattamento economico eguale a quello dei maschietti, di non essere incluse in un cliché riduttivo, di poter scegliere quale strada percorrere nella loro esistenza senza condizionamenti. E che dire dell’articolo 36 della Costituzione? “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”. Perché allora le donne nel nostro paese percepiscono stipendi e pensioni notevolmente inferiori rispetto a quelli degli uomini? Questa disparità evidente, va ad alimentare la violenza economica. Violenza che non mi risulta sia mai stata inflitta da una donna al suo partner. Trovo, anzi, che l’articolo 36 sia discriminante e credo andrebbe modificato aggiungendo dopo “il lavoratore” la frase “e la lavoratrice”. Perché in Italia tutto deve essere scritto per filo e per segno, a scanso di equivoci. I padri costituenti si sono rifatti, in parte, con l’articolo 37, tutt’ora inattuato: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.” Chissà perché c’è stato bisogno di questa specifica (o discriminazione verso i maschietti). Di certo negli anni Quaranta il problema era più evidente di oggi. Le donne votano per la prima volta nel 1946. Il delitto d’onore era ancora in vigore. Lo stupro era considerato un delitto contro la morale. La donna – come specifica il secondo comma dello stesso articolo – aveva la funzione “essenziale” di occuparsi della famiglia e della prole. Oggi la legge sopperisce, qualcosa è cambiato, ma la cultura predominante resiste come dimostrano le statistiche, alcune leggi e i fatti. La Convenzione di Istanbul, dalla quale tra l’altro non è esclusa la tutela dei bambini, degli anziani e perfino degli uomini (rari) vittime di violenza domestica, non è solo utile. E’ necessaria, perché riunisce gli strumenti permettendo di adottare un approccio legislativo completo che va dalla prevenzione, alla protezione, alla perseguibilità dei colpevoli già dalle prime forme anche sottili di violenza – e qui, qualche maschietto un po’ troppo “espansivo” trema.
Proviamo a immaginarci nell’atto di mettere insieme i pezzi di un puzzle. Se le tesserine si trovano in stanze diverse e qualcuna finisce sotto il divano, qualcun’altra dietro un mobile, non solo ci si metterà più tempo a compiere l’opera, ma non si riuscirà a finirla a causa delle tessere nascoste. Se invece le si cerca prima e le si raduna tutte in un unico luogo, sarà più semplice ottenere il risultato. Oggi in Italia quelle tessere sono sparse, alcune non sono mai state create, altre non si trovano più. Ma la cosa peggiore è che quel puzzle molti non vogliono finirlo perché non ne vedono la necessità che invece in altri paesi è chiara.
Una volta definitivamente ratificata la Convenzione ci obbliga – in virtù di un altro dei principi fondamentali della nostra Costituzione (art.10) – a seguirne le indicazioni senza se, senza ma, senza pregiudizi, senza opinioni personali, senza ideologie, senza polemiche sessiste e senza perdite di tempo che costano vite umane. E’ un atto politico forte. Un impegno preso a livello internazionale, che dimostra da parte dello Stato la presa di coscienza di un problema e l’impegno a trovare soluzioni concrete. Ci auguriamo che i Senatori non si facciano influenzare dai bastian contrari che forse in fondo in fondo temono di trovarsi la polizia alla porta perché di tanto in tanto tirano un ceffone distratto alla moglie, pensando che tanto è solo una banale e normale lite tra coniugi e allora ci sta. Oppure le negano di lavorare perché, poco sicuri di sé, temono che una volta indipendente alla moglie di loro non gliene frega più niente.