L’intervista di Pierfrancesco De Robertis
Giorgia Meloni, in genere i politici mandano in libreria libri che fanno scrivere da altri. È anche il suo caso? «No, no. Io il libro l’ho scritto tutto da me. D’altra parte se decidi di raccontare chi sei, che cosa hai fatto, che cosa hai dentro l’anima non puoi delegare».
Quando ha trovato il tempo? «Mi ha aiutato il primo lockdown. Avevo un po’ più di tempo libero. La mattina presto, la sera tardi, la domenica. In ogni caso ci ho messo un anno».
«lo sono Giorgia» è un testo in certi passaggi molto intimo. Lei racconta di suo padre poco presente, di sua madre che quando ha scoperto di essere incinta di lei voleva abortire e tanti altri aspetti finora non noti. Le è costato mettersi cosi in piazza? «Non mi è costato fatica scrivere, anzi, a volte la scrittura aiuta ad appropriarsi di certi passaggi della nostra vita. Mi è costato e mi costa molto di più parlarne, andare in tv, nei giornali. Metterci la faccia».
Il libro è in testa alle classifiche. Se l’aspettava? Fa il paio con il boom nei sondaggi… «Per niente. Ma sono contenta di essermi raccontata per quella che sono realmente».
Lei è spesso in tv, la gente già la conosce. «Non è vero. Vede, resto spesso schiacciata sotto un’immagine un po’ forzata di una dura, aggressiva, spigolosa. Forse per la postura, le espressioni o semplicemente il ruolo. Però sono anche altro rispetto a questo quadro nel quale non mi riconosco: ho un lato leggero, i miei cedimenti, le mie paure. Tutto questo restava nascosto».
La prima pagina del suo racconto si apre con sua madre e l’ultima si chiude con un’altra madre, lei. Mamma di Ginevra. «Devo tutto a loro due».
La sua vita, anche politica, parte scandita da un prima e un dopo. Prima di Ginevra e dopo Ginevra. «La maternità cambia tutto, e non solo per un politico. Siamo tutti centrati su noi stessi ma quando ti nasce un figlio quel centro esce da te e diventa un’altra persona».
Nella vita si può cambiare tutto, il marito, la moglie, il lavoro, la città dove si vive, ma l’essere babbo o mamma non cambia. «A me è cambiata soprattutto la percezione del tempo, che non voglio più perdere come prima, e l’ordine delle priorità: adesso quando la sera torno a casa e vedo che mia figlia sta bene il resto assume tutto un altro colore».
Giorgia Meloni fa politica da quasi trenta anni. Come è mutato il rapporto dei giovani con la politica? «Credo molto nell’impegno dei giovani in politica, e penso che siamo l’unico partito che ci investe così tanto. Ma è innegabile che viviamo nell’era dell’immaterialità, facciamo tutto dietro a un computer e i giovani più di noi. Non è più come prima, quando andavamo in sezione ad attaccare i manifesti. A volte non è facile per noi capirli».
Quando si teme di non capire i giovani significa che si sta iniziando a invecchiare. Le capita di pensarci? «L’altro giorno sono andata a correre al mattino presto, come faccio sempre. Ascolto musica, sento la hit, per tenermi aggiornata. Ho notato che delle prime dieci canzoni non conoscevo neppure una. E allora sì, ci ho pensato».
Del mondo del Movimento sociale, quello della sua prima attività politica, che contatti ha mantenuto? «Molti, e piacevoli. Alcuni di loro sono ancora con Fratelli d’Italia, a cominciare da La Russa, Rampelli, Lollobrigida. Ma anche con gli altri mi sento. Mi scrivono, mi criticano. Ho cercato di dare una casa a quel mondo, ovviamente facendolo evolvere».
Fini l’ha più sentito? «L’ho rivisto in occasioni pubbliche. Ma quella è una vicenda un po’ più complessa, ha scelto di non voler avere più a che fare con la politica».
Quel mondo è lontano. Ora la politica è dominata dai social. Meglio o peggio? «Il pregio dei social per un politico è che permettono di far arrivare l’immagine di te in cui ti riconosci, quella che senti più vera, saltando la mistificazione che una certa intellighenzia ti appiccica addosso. Poi c’è il difetto». L’aggressività. «Si, ma non solo. Il vero difetto dei social, per un politico, è che ti obbligano a semplificare. La politica è una cosa seria, complessa, e non sempre riesci a dire cose compiute in poche battute». Quindi viva i social. «È una realtà con la quale ci dobbiamo misurare, al netto delle censure di Zuckerberg». Si riferisce a Trump. «Certo. Trovo assurdo che si censuri un presidente degli Stati uniti in carica perché dice cose che consideri inopportune. E mi stupisco che nessuno si ribelli. Quando la censura inizia non sai dove finisce. E invece a un certo mondo va bene».
Perché il mondo conservatore o moderato non ha mai avuto una «sua» intellighenzia? «Ce l’abbiamo, ma nostro ceto intellettuale è meno organico. Siamo più aperti. Il nostro culto per la libertà ci porta ad avere intellighenzia più capace ma meno intruppata».
E invece Facebook fa riferimento a quel mondo. Anche se Facebook non può essere definito di sinistra. «La sinistra oggi è il braccio politico delle grandi concentrazioni economiche e delle multinazionali».
La cui narrazione è il politicamente corretto. «Esatto. E siccome vogliono massificare, omologare, ci contrastano perché noi difendiamo le identità, qualsiasi identità».
Massificare e omologare serve a vendere meglio. È un meccanismo economico. «Serve soprattutto a schiavizzare meglio, a concentrare la ricchezza nelle mani di pochi. Noi difendiamo lo specifico, anche se piccolo».
A proposito di specifico. Qual è lo specifico femminile in politica? «La concretezza, perché le donne sono meno inclini alle perdite di tempo, la sensibilità, la minore propensione ai compromessi. Secondo le statistiche a parità di presenze, il numero delle donne corrotte è minore».
La sinistra parla tanto di questione femminile ma poi l’unica segretaria di partito è a destra, e prima dell’uscita di Letta il Pd non aveva donne negli organi dirigenti. Senza contare che i grandi leader europei, dalla Thatcher alla Merkel non stanno a sinistra. È un caso? «Per nulla. Non si può stabilire che la presenza femminile è figlia di quote di nominati. La sfida si fa in partenza quando tu crei condizioni perché le donne si possano impegnare in politica al pari degli uomini. Poi deve esistere una competizione reale, che seleziona i migliori o le migliori. La doppia preferenze di genere aiuta, le quote rosa no. Non aiutano le donne».
Dopo i miliardi del Recovery è cambiato il giudizio degli italiani sull’Unione europea? «Il Recovery è stato il sussulto di un’Unione che si era accorta di dover battere un colpo, pena la sua scomparsa».
E il suo giudizio? «No. Sono per un’Unione di stati confederali, in cui si stabiliscano priorità e si affrontino insieme i problemi più importanti o quelli di competenza comune, lasciando agli stati gli altri. Per dire: è normale che l’Europa si occupi di vongole ma poi sia assente in politica estera, sui migranti, nel confronto con le multinazionali che non pagano le tasse o non ci voglio dare i vaccini? Cambiamo l’ordine dei fattori. Si chiama sussidiarietà».
Centrodestra e centrosinistra hanno in certi casi difficoltà a individuare figure da spendere come candidati sindaci. Come mai? «Il sindaco di una grande città è un mestiere molto complicato, pochissimo remunerato, pieno di grane. In metropoli come Roma difficilissimo. Arduo convincere qualcuno di livello che non sia molto appassionato alla politica. Ma almeno noi di centrodestra riusciremo entro pochi giorni a farlo».