di Carlo Fidanza
6 giugno 2013
Diaspora e ricomposizione della destra. Due temi sui quali in queste settimane si sono esercitati numerosi opinionisti e uomini politici. Non sempre in buona fede, non sempre disinteressati. Molti avvoltoi (di quelli che da anni bazzicano l’ambiente della destra e usano ogni episodio per sputtanarlo in nome di una presunta purezza), poche aquile. Le analisi retrospettive, quelle ingenerose come quelle indulgenti, rischiano di allontanare dal cuore del problema che, mai come ora, trova la propria sintesi nel leniniano “che fare?”. Nel dare risposta a questo interrogativo bisogna partire da alcuni elementi di realtà.
Il blocco elettorale della destra,quello che in maniera sostanzialmente stabile ha trovato il suo riferimento politico in Alleanza Nazionale tra il 1994 e il 2008, si è scomposto. Una parte ci aveva mollato già nelle ultime fasi di An, disorientato dalle incomprensibili “evoluzioni” finiane su immigrazione e diritti civili. Una parte ci ha mollato nel passaggio verso il PdL, essendo venuta meno la possibilità di votare centrodestra senza riconoscersi in Berlusconi. Una parte, al contrario, ci ha seguito talmente tanto nel passaggio al PdL da convincersi che Berlusconi sia la destra: l’uomo forte, l’anticomunismo con qualche ammiccamento al “si stava meglio quando si stava peggio”, un po’ di propaganda antieuropeista, vizi privati e pubbliche virtù sono richiami che mantengono un certo fascino su una fetta dell’elettorato di destra. Ma se Berlusconi “copre la destra” a ciò corrisponde, per contrappasso, la pulizia etnica nel Pdl di ogni residua presenza di da destra proviene.
Fuori dal Pdl, una parte seppur piccola ha trovato rifugio sotto le insegne della Destra di Storace; un’altra, anni prima e prevalentemente al Nord, sotto quelle della Lega. Ora una parte ulteriore, e forse già pentita, ha trovato nell’allucinazione grillina una risposta anti-sistema e anti-berlusconiana. Pochissimi hanno seguito il velleitarismo finiano e qualcuno ha tradotto la propria alternatività a Berlusconi votando Giannino. Tengo per ultima l’esperienza di Fratelli d’Italia, l’unica nota positiva in un panorama di macerie che certamente fa male al cuore e alla mente ma che è, appunto, uno di quei dati di realtà da cui partire.
“L’unica nota positiva” non è uno scontato giudizio di bottega quanto l’evidenza provata dai numeri: un partito costruito in un mese, direttamente in campagna elettorale con poche risorse e poca visibilità, che ottiene nove eletti in Parlamento e poche settimane dopo si consolida nelle elezioni amministrative. Un partito in grado di esprimere un mix originale, a partire dai suoi tre fondatori, tra rinnovamento generazionale, tradizione della destra e tensione anti-tecnocratica.
Avventurandoci sul terreno sempre insidioso e forse in gran parte superato del nominalismo, un partito di destra (per il motivo apparentemente banale che non ce n’è seduti più a destra) ma con una vocazione a rappresentare lo stato nascente di un nuovo centrodestra. Non troppo dissimile, in teoria, da quello che fu il ruolo storico di An nella Seconda Repubblica: partire da destra per rappresentare un centrodestra non berlusconiano.
Certo, una creatura ancora molto imperfetta, ma è necessariamente da qui che si deve ripartire, per non attendere a braccia conserte il big bang che apra la strada alla stagione post-berlusconiana, al rimescolamento delle carte che tutti attendono e che prima o poi inevitabilmente arriverà.
Dunque, che fare? Gli appelli si moltiplicano ma in molti di essi si coglie l’ansia non tanto di una “ricomposizione” della destra quanto di una “ricollocazione” degli uomini della destra, politici che hanno perduto una serie di scommesse e oggi, in molti casi senza un reale consenso, si ritrovano a fare appello ai sentimenti per provare a giocarsi l’ultimo giro di giostra. Voglio essere crudo, quasi sgradevole: non è prendendo le seconde file di Fiuggi ’95 e avanzandole di qualche passo che si può rilanciare la destra.
Non basterebbe un Luca Barbareschi in versione “C’eravamo tanto amati” (in versione deputato abbiamo già dato), né un viaggetto a Itaca per dare un’incipriata a una maschera che saprebbe di muffa. Quella stagione, con la sua originalità, la sua modernità e i suoi errori, è chiusa e non serve a nulla riproporla. Se, come crediamo, esiste in Italia una destra diffusa e profonda, oggi dispersa, questa non è disposta a riconoscersi in formule vecchie. Proviamola nuova! Con nuove facce e una nuova originalità politica.
E spetta a una nuova generazione farlo, quella che ha conosciuto il meglio di An e ne ha vissuto il declino senza avere avuto la possibilità di arrestarlo così come quella che viene da altri percorsi, quella che non vive di rendite di posizione ma è abituata a confrontarsi tutti i giorni con il consenso, quella che sola potrebbe garantire di non ricadere in vecchie logiche. E dobbiamo farlo aprendo le nostre porte a chi non viene da destra (se per destra intendiamo l’esperienza storica di An), non per un generico richiamo moderato ma perché c’è una fetta importante di donne e uomini di centrodestra che non amano gli inciuci, che non ci stanno alla melassa indistinta in salsa Bilderberg, che non accettano supinamente i diktat dell’Europa a trazione tedesca, che detestano il politicamente corretto.
Al di là dei nominalismi, questa è quella destra diffusa che dobbiamo intercettare. E dobbiamo farlo ripartendo dai territori, laddove proliferano le esperienze civiche di centrodestra che nascono in dissenso dal PdL e da personale locale spesso impresentabile. Dialogare con le migliori tra queste e costruire percorsi comuni può essere l’embrione di una nuova e più grande aggregazione. E dobbiamo farlo senza torcicolli e settarismi, senza esitare in attesa che l’ex compagno di cordata “momentaneamente” rimasto sotto coperta nel PdL (per convinzione, paura o interesse poco importa) decida o meno di raggiungerci, senza pensare che basti sommare algebricamente piccole percentuali per raggiungere una percentuale più grande. Consapevoli che la traversata sarà lunga e piena di insidie, che potrebbe subire brusche interruzioni ma anche eccitanti accelerazioni. E che, sempre di più in tempi cupi come questi, le astratte formule politologiche cedono il passo alla forza dell’esempio e alla credibilità delle persone.