“La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattromila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso”: nelle parole del cantautore Fabrizio De Andrè la fotografia di una Regione straordinaria, un vero paradiso, di cui fa parte un dolce di origini antiche che si chiama seada.
E’ chiamato anche sebada o sevada, a seconda della zona della Sardegna e va declinata in “seadas” solo al plurale, come tengono a puntualizzare i sardi.
Si tratta di un involucro leggero di pasta di semola ripieno di formaggio filante, una sorta di raviolo che viene fritto e poi ricoperto di miele, che si mangia a fine pasto.
Secondo alcune fonti il nome di seada deriverebbe dal verbo spagnolo “cebar”, cibare in abbondanza, altri ritengono che sia originato da “segada”, cioè tagliata in due come il sacchetto di pasta di semola nel quale viene messo il formaggio vaccino. Tuttavia, la versione più accreditata fa risalire la parola all’antica Roma, da “sebum”, grasso. Perché nella tradizione la sfoglia di semola veniva fritta nel grasso animale.
Di certo la sua storia è antica quasi quanto la storia della cucina sarda, addirittura gli esperti ne trovano menzione nella letteratura latina. Nel Satyricon di Petronio, per esempio, è descritta una pietanza che Trimalcione offre dopo un funerale, composto da farina e formaggio intriso di miele.
Sicuramente le sue origini, considerata la presenza del formaggio, sono legate alla pastorizia. La seada è fatta di pasta “violada”, viene infatti realizzata con semola di grano duro e strutto e va schiacciata, tesa, ripiegata fino ad ottenere la consistenza ideale: liscia, omogenea ed elastica. Per il ripieno si usa in genere pecorino fresco, bucce di limone tritate. E, per la frittura, olio di arachidi o di mais. Il pecorino fresco, secondo la tradizione, va tagliato a cubetti e messo a riposare a temperatura ambiente, perché il formaggio deve inacidire, in sardo il processo si chiama “casagedu”. Tocco finale e decisivo il miele: di castagno o ancora meglio di corbezzolo, leggermente amaro. Quello che in Sardegna si raccoglie in autunno.
Anticamente, prima di diventare un dolce da fine pasto, aveva la grandezza di un piatto e sostituiva il pranzo e la cena. Da piatto povero è diventata una delle ricchezze della Sardegna e della tradizione culinaria italiana. La Sovrana bellezza siamo noi.